La sera del dì tredici d’agosto, dieci giorni dopo l’arringa improvvisa agli ‘uomini milanesi’, io giungevo da Asolo al Vittoriale degli Italiani: ed ero sùbito introdotto nell’Officina di Gabriele d’Annunzio, in grazia di Gian Francesco Malipiero a lui diletto sopra tutti i trovatori di nuove musiche.
Gli recavo, eseguita per lui solo, manoscritta per lui solo, la prima riduzione del terzo Libro de’ Madrigali di Claudio Monteverde – quattro viole e un violoncello.
La stupenda edizione di Tutte le Opere del divino Claudio – onore perpetuo del giovine maestro veneziano – non era ancor venuta in luce. ma io recavo la primizia in offerta al poeta che solo, contro tanta ignoranza e tanto oblio, fin dall’anno 1900 nel suo libro ‘Il fuoco’ aveva scritto: ‘Bisogna glorificare il più grande degli innovatori, che la passione e la morte consacrarono veneziano, colui che ha il sepolcro nella chiesa dei Frari, degno d’un pellegrinaggio; il divino Claudio Monteverde: anima eroica di pura essenza italiana.’
Non v’è spirito bennato che possa dimenticare le pagine di quel libro sul Lamento d’Arianna stampato da Bartolomeo Magni a Venezia nel 1623. Gabriele d’Annunzio possedeva la stampa del Gardano, l’unico esemplare rimasto oltre quello custodito nella Biblioteca dell’Università di Gand.
Mi parve ch’egli si turbasse in un modo singolare tenendo in mano i fogli ed osservandoli. a bassa voce scandiva gli inizii di alcuni Madrigali: ‘Se per estremo ardore…’ e poi ‘Rimanti in pace…’
Veramente l’officina di tanta fatica esalava l’odore e il calore del cervello, com’egli soleva dire sorridendo. hoc opus hic labor est. tutti i gessi del Partenone erano disposti intorno, su le alte e ampie mura, privi della lor bianchezza bruta e sapientemente soffusi d’una pàtina ineguale di avorio manipolata da lui stesso. con che? con molti segreti ma specialmente col caffè: col caffè ‘infusione mentale, tintura frontale, mosto cervicale’, com’egli svelò un giorno dichiarandosi maestro dei patinatori. non v’eran soltanto le metope equestri delle Panatenee, ma i più bei frammenti del frontone orientale trattato con la prosodia del Coro così che le statue alzate e le colcate e i gruppi assisi – come quel di Demetra e di Coré – si rispondevano come la strofe l’antistrofe e l’epodo [riferisco le sue parole]; né mancavano i più bei frammenti del fregio occidentale: le metope dei Centauri e dei Lapiti intramezzate ai malcerti miti dell’Attica.
Egli sollevò lo sguardo dal libro del ‘triste sonator di viola’ e mi fisò. con un gesto placido indicò un frammento più degli altri offeso. disse: ‘le figlie di Cecrope si gettano dal sommo dell’Acropoli in castigo volontario del crimine commesso violando il segreto di Athena.’
Restò chino su i fogli rigati. strinse le tempie fra le palme. non mi ardivo indagarlo né interrogarlo; ma mi parve ch’ei fosse inteso a dominare una perplessità simile quasi all’angoscia.
Presenti erano il Mantegna di Cesare, il Buonarroto della Sistina e della Sacrestia nova. tentando quasi di occultarmi, di scomparire, mi accostai ad alcuno dei focolari insonni. rasentavo modelli di velivoli, rilievi di eliche, anatomie del cavallo e dell’uomo, utensili di fabbro e di falegname, maschere funebri, Antonio Baiamonti accanto a Nazario Sauro, Blaise Pascal accanto a Ludwig Beethoven, le carte del Padre Coronelli cosmografo della Serenissima Repubblica a descrizione del Golfo di Venezia olim Adriaticum, la gamba d’Ida Rubinstein, la mano del violinista Théo Ysaye, il fosco piede bituminoso di Tui superiora delle recluse del dio Min. ma ero affascinato da una lunga tavola grezza sostenuta da quattro capre simili ai trespoli de’ muratori.
Interamente coperta di que’ fogli fabbricati a Fabriano con filigranato il motto ‘Per non dormire’; su’ quali fu scritta l’opera intiera di Gabriele d’Annunzio, dall’anno di grazia 1890 a oggi. una scrittura folta e nervosa li empiva tutti. sapevo ch’eran circa quattromila. eran le pagine del ‘Libro segreto’. eran le note che per alcuni anni egli scrisse quasi ogni notte, con la più audace sincerità, non a confessione ma a rivelazione di sé medesimo.
Ebbi paura quando si voltò improvviso, si levò, scrollò il capo e le spalle, con una specie di sbuffo energico da cavallo che aombri. m’assalì aspro e sprezzante: ‘forca vecchia, spia nova. buon discepolo, sei capace di tutto. ti ardisci di mettere gli occhi nelle mie carte, senza chiedere!’
Io giunsi le mani e feci atto d’inginocchiarmi a chiedere perdono. disse: ‘basta. è ora che tu te ne vada.’
Mi diede per Gian Francesco Malipiero l’effigie di Dante incisa nel legno da Adolfo de Karolis piceno per la Città di Vita: Dantes Adriacus. ‘portagliela in memoria di Casella che diede il suono a tal ballatetta di Dante, a tal madrigale di Lemmo da Pistoia quanto estraneo a questo Libro terzo!’
Come osavo dimandare un qualche segno per me, egli si appressò alla tavola delle quattro capre, raccattò un pugno di fogli e me lo gettò ai piedi. ‘eccoti un pugno delle mie ceneri. vattene. intendi? vattene!’
Mi costrinse a raccogliere in fretta i fogli numerosi. mi spinse all’uscio. richiuse.
E tutto fu silenzio.
Due ore dopo, tutto fu spavento. quando accorsi, il suicida era disteso nella ghiaia, pallidissimo, immoto senza alcun disordine, supino anche il capo, come già composto nella fossa per sempre.
Nulla è più da dire.
I medici: Antonio Duse, Francesco d’Agostino, Davide Giordano, Mario Donati, Raffaele Bastianelli, Augusto Murri, i più grandi sentenziarono: ‘segni manifesti di frattura della base del cranio estesa all’orbita destra. commozione cerebrale. stato d’incoscienza. segni di compressione cerebrale dubbii. disturbi di motilità e di sensibilità non manifesti. ferite lievi escoriate all’arto inferiore destro. leggera contusione a destra del torace. ambe le mani sono incolumi. non v’è indicazione urgente di atto chirurgico. polso regolare 67. respiro regolare 25. temperatura 37,8. prognosi tuttavia riservata.’
Gli stessi dottori, cui s’aggiunse il grande oculista Giuseppe Cirincione, il 17 agosto dichiararono: ‘la sua coscienza si va risvegliando. i sintomi rilevati dall’esame oculare confermano la diagnosi di frattura della base limitata alla fossa cranica anteriore destra, cioè corrispondente all’occhio già leso. la vista è salva.’
Il 23 agosto il grande Augusto Murri, che già gli aveva recata a Fiume la sua testimonianza spontanea in onta ai divieti del Governo ignobile, novamente spontaneo venne ad accertare il ritorno della coscienza, il non menomato vigore dell’intelligenza, l’immunità da ogni pericolo oscuro.
E già da una settimana Antonio Duse e Francesco d’Agostino avevan cominciato a notare i pensieri del paziente espressi. anch’essi appartengono al ‘Libro segreto’ ma trascendono il termine umano. Antonio Duse era chino su quella inquietudine implacabile quando il cuore fraterno gli balzò: riconobbe che per la prima volta l’antica volontà di dire si riformava nel trasognamento. ‘poter dire la parola che turba il millenne; poter dire la parola che turba il ventenne.’
‘Eccoti un pugno delle mie ceneri. ti getto le ceneri di me stesso. vattene!’
Avendo custodito per tredici anni le viventi pagine – che non sono se non la quinta parte di quelle accumulate su la tavola grezza – è male ch’io non più resista al desiderio di darle in luce senza scrupoli?
Osai dimandare nel principio della primavera a Gabriele d’Annunzio se mi fosse lecito chiudere le ceneri in una urna trasparente e di bel garbo. con la sua solita grazia incurante egli mi rispose la parola della tragedia combattuta tra la poesia e la bontà: ‘non dimandare.’ gli serve all’antico e fino a oggi innovato proposito, forse umile, forse orgoglioso, di celarsi.
Stampo le cento e cento e cento e cento pagine del ‘Libro segreto’ a me donate in punto di morte. a dispregio delle tante biografie più o meno recenti, da un de’ tanti sollecitatori americani accettò – per il piacere di dar fondo alla disordinata somma – accettò di scrivere la sua autobiografia senza date e senza episodii sotto il titolo ‘Favola breve d’una vita lunga’. penso che questo volume respiri e soffra nel medesimo spazio spirituale che non sa regioni non lontananze non orizzonti non limiti.
Nel trascrivere e nell’ordinare mi soccorre Gian Francesco Malipiero con la fervida attenzione che gli fa discoprire e perfettamente restituire ‘L’incoronazione di Poppea’ o ‘Il ritorno di Ulisse in Patria’ o la ‘Messa a sei voci’ e tutte le altre Opere di Claudio Monteverde date in luce nel Vittoriale degli Italiani.
Licenziamo il volume da Asolo con la data del Cinque maggio, in vista del Grappa che stende la santa ombra verso una pietra sepolcrale non sopravanzata da’ suoi fili d’erba.
In Asolo, il Cinque maggio 1935.
Angelo Cocles